EUROSPORT: “70 GOL TRA LIGA E PREMIER, ECCO IL TOP PLAYER CHE SOSTITUIRÀ POGBA ALLA JUVE”

Prima regola per superare un addio: scrollarsi la paura di voltare pagina. Ricordate le videocassette emozionali sul cambiare vita? Bene: mettetevi comodi. E seguite i passaggi uno ad uno. Perché tocca cambiare registro, tocca scegliere una nuova strada. Tocca riprendersi l’entusiasmo di chi ha davanti una stagione da vivere perennemente in volo.

“C’è vita dopo Pogba”: e probabilmente non è mai stata così bella, così avvincente, così piena di buone vibrazioni. “C’è vita dopo Pogba” che assomiglia tanto a quel “C’è vita dopo Viera”, perché così titolò il Telegraph il giorno dopo l’addio del centrocampista francese all’Arsenal. Guarda un po’, gli scherzi del destino: allora il centrocampista più forte di Francia passò alla Juve, non di certo il contrario. Insomma, se proprio non ci si vuole rassegnare all’idea, può quantomeno bastare l’affidarsi alla storia: tutti importanti, nessuno indispensabile. Figuriamoci se ben sostituiti.

L’ultima idea? È proprio quel pezzo di vita del dopo Viera: all’epoca aveva poco meno di 18 anni, una faccia pulita e tanti anni di cantera Barça che gli valsero la palma di talento più puro del calcio mondiale. Neanche diciassettenne fu subito gettato nella mischia, ad imparare il calcio tra leoni e corsa a perdifiato. Altra storia, lì in Inghilterra: nessun fraseggio, solo palla avanti. Gli occhi fissi sulla porta avversaria, un mondo in continua evoluzione verticale. Sì, ormai l’avete capito: si parla diCesc Fabregas. L’eterno incompiuto, o forse compiuto a modo suo. Senza esser mai stato compreso del tutto, se permettete.

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Wenger, Guardiola, Mourinho. Nel mezzo, il Tata Martino che lo riporta mezzala. La sua evoluzione tattica sa di continua involuzione: un vero e proprio paradosso che però gli frutta un gruzzolo di storie niente male. Un mondiale su tutto e tutti: vissuto in panchina, ma con l’assist decisivo che gli lustrerà per sempre il nome nell’elenco dei più grandi. E poi due Europei, l’ultimo interpretato più da falso nueve che da 4 puro. Già, il quattro: tornerà sempre nella sua vita. Sempre. Quand’aveva quattordici anni non c’era partita in cui non lo pretendesse. Il suo idolo, del resto, era Guardiola. “Il mio gioco è questo: alzare la testa e velocizzare il gioco – disse in una delle prime interviste -. Non sono una macchina da gol, mi piace fare l’ultimo passaggio”. Ecco: da regista, trequartista, mediano, ma che importa?

Importa agli allenatori, semmai. Anarchico ma altruista, Cesc: il gioco ha solo il suo marchio di fabbrica, e se poi gli altri sanno come seguirlo è finita ancor prima dell’approccio iniziale. Accadde più o meno questo con l’Arsenal dei miracoli: da vertice basso a dieci puro, scelta condivisa col padre calcistico Arsene. Se ne invaghì perdutamente, l’alsaziano. Un po’ come Rodolfo Borrel, lo scout che superò mille ostacoli pur di portarlo al Barça: è che la leggenda vuole che il suo primo allenatore non lo facesse più giocare. Perché? Sapeva dei movimenti in tribuna, degli osservatori del Barcellona pronti col taccuino alla mano. Prima di portarlo in blaugrana, Borrell andò tre volte a Mataro, un comune vicino ad Areny de Mar, città dei Fabregas. Lo vide, lo scrutò, se ne innamorò, lo portò con sé: necessariamente in quest’ordine consegnò al grande calcio un giocatore a suo modo determinante.

Quando i suoi genitori si separarono, l’amico Rodolfo gli regalò la 4 blaugrana col suo nome dietro.“Vedi? – gli disse – Questa un giorno sarà tua”. Non fu tanto, ma gli diede la forza di proseguire con gli allenamenti, di credere nel suo sogno, di rimarginare una ferita. E nonostante Cesc scelse l’Inghilterra, quella promessa rimase inossidabile, intatta, marchiata col sorriso di quel pomeriggio. La parola data a Rodolfo Borrel non poteva essere tradita: fu il primo, di una lunga serie, a credere davvero nello spagnolo.

Tempo al tempo, perché dagli insegnamenti di Wenger al ritorno a casa il passo non è breve, però è intenso. E intriso di belle storie, di grandi emozioni, di fortissime delusioni. Nel frattempo, a casa sua, si stava costruendo la squadra più forte di tutti i tempi: immaginate un po’ la voglia di ripagare la fiducia di Rodolfo tramutata in promessa, di tornare a vivere la sua gente e di poterlo fare al massimo splendore. E poi c’era la generazione ‘87, la sua, quella dei ragazzini terribili e sontuosi, in grado di dominare mezza Spagna con risultati ben più larghi di un set tennistico. Si sprigionavano i Messi, i Piqué, i Victor Vazquez: mancava solo lui, tornato sul più bello come il classico figliol prodigo.

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Rientra e sale sul tetto del mondo, rientra e finisce per fare il nueve. Ma come? Non doveva essere l’erede di Guardiola? Non per Pep: non necessariamente una bocciatura, di sicuro un ‘declassamento’ che a Cesc fa male. Non agisce mai da vertice basso, e con Villanova la storia non cambia. Solo il Tata lo riporta a centrocampo: mezzala, per la precisione. Lo strappo è inevitabilequanto il titolo in prima pagina: Fabregas ha fallito.

Ci sono ferite che soltanto le grandi vittorie sanno sanare. In questo senso, il ritorno a Londra  è ciò che ha saputo separare la delusione dalla frustrazione, mescolando il tutto per poi creare rabbia agonistica. Certo, un po’ ci ha messo anche Mou: gli telefonò tre volte prima di convincerlo a sposare la causa Chelsea. Pure meno a dimostrargli che quella squadra era in grado di poter giocare per vincere tutto. Si limitò ad una Premier: la prima, la più sudata, la più meritata. E anche la più infame, guardando ai risultati dell’anno successivo.

È il destino di chi risplende di luce propria: non sempre sei in grado d’illuminare anche il tuo cammino. I Blues ripartono da Conte, e Cesc? Non è intoccabile, non è incedibile. Anzi: è un pezzo pregiato, neanche troppo per chi deve sostituire il cuore del gioco. C’è vita dopo Pogba, sì:c’è Fabregas. Con cui la Juve ha già un accordo di massima, con la palla che passa direttamente tra i piedi del mister leccese: se sia giusto o meno privarsi del talento dei suoi piedi, della sua velocità di pensieri, del suo ultimo assaggio di calcio, questo lo potrà sentenziare solo lui.

Intanto, Cesc corre e guarda avanti. Che da quattro, da dieci, da nove, da otto, resta sempre quel ragazzino che sogna in grande. Un po’ come la Juve: brava a rialzarsi dopo mille colpi, sempre con un nuovo sogno da raggiungere. Palla al piede, testa alta, con l’ultimo passaggio solo da chiudere. Seconda regola per superare un addio: innamorarsi di un altro. Perdutamente.