BONIEK SCATENATO, LA SUA JUVE ANNI OTTANTA O IL BARCELLONA DI MESSI? LA RISPOSTA FA DISCUTERE

Boniek ha parlato tanto di Juve in una lunga intervista al Corriere dello Sport. Vi riproponiamo i passaggi salienti che riguardano i bianconeri.

I GUAI DI PLATINI – «Io penso che sia stata una cosa politica. Guardi, se Michel avesse avuto davvero scheletri nell’armadio non si sarebbe candidato. Io so che Michel è una persona per bene e sono dalla sua parte. Vorrei che fosse lui a consegnare la coppa all’Europeo in Francia, nel suo paese».

LA FINALE CON L’AMBURGO – «Mi viene da dire solo porca miseria. Ricordo che nello spogliatoio, dopo venti minuti di silenzio assoluto, ci promettemmo che dovevamo di lì in avanti vincere tutto, e in particolare la Coppa dei campioni. E così fu. Io arrivai ad Atene dalla nazionale polacca tre giorni prima della partita, trovai i ragazzi concentrati. Ma poi in campo eravamo sotto tono. Noi eravamo più forti ma loro erano forse meno stressati. Mi dispiace molto, specie per i sessantamila tifosi in lacrime allo stadio. Non li dimentico».

LA MIA JUVE O QUESTO BARCELLONA? – «Per me quella Juventus. In tre anni facemmo tre finali. Ma certo i paragoni sono impossibili. Prenda Maradona e Messi: uno è stato marcato sempre a uomo, l’altro sempre a zona. Se sei marcato a uomo tocchi meno palloni e ti menano, ma tanto. Lei pensi se Maradona giocasse oggi, con tutti gli spazi che ha Messi. Pensi che durante una partita Juventus-Napoli nello spogliatoio ci dicemmo che l’unico modo per fermarlo era menargli di brutto. Ma dopo dieci minuti in campo ci guardammo e ci dicemmo che no, era troppo bello vederlo giocare».

IL GOL PIU’ BELLO – «Non saprei dirle. Ma ho un dato statistico che le racconta cosa siamo stati, l’uno per l’altra, la Juve ed io. Ho giocato tre anni e ho disputato quattro finali in tutto, compresa la Supercoppa. Ne ho vinte tre. Abbiamo fatto cinque gol e di quelli io ne ho messi a segno tre. Non credo ci siano altri score così. Il gol all’Aston Villa? E’ vero. Ha ragione. Meraviglioso lancio di Michel e fiondata mia. Da manuale. Ma io ricordo con affetto anche quelli contro il Liverpool, sul campo innevato e con il pallone rosso. Era il giorno in cui nacque mio figlio. Gran momento, per me».

L’AVVOCATO – «Era un uomo affascinante e divertente. Se ti citava voleva dire che ti stimava. Altrimenti ti ignorava. Ricordo che il lunedì mattina alle sei chiamava Michel o me e ci chiedeva giudizi su giocatori stranieri. “Com’è Robson?” Il martedì trovavamo queste valutazioni nelle interviste che rilasciava ai giornali. Si fidava evidentemente di noi».

HEYSEL – Ho un ricordo angoscioso. Noi non volevamo giocare. Fummo costretti, per ragioni di ordine pubblico. Noi sapevamo che ci avrebbero dato addosso comunque: se avessimo giocato sul serio, se non lo avessimo fatto, se avessimo esultato per un gol e se non lo avessimo fatto. Noi sapevamo che c’erano dei morti ma non la proporzione. Io l’appresi all’alba a Bari. La Juve mi aveva messo a disposizione un aereo della Fiat per andare a Tirana, dovevo giocare con la Polonia. Partii in piena notte da Bruxelles ma non ci fecero atterrare in Albania perché l’aeroporto era chiuso. Facemmo così scalo a Bari e, mentre prendevo un caffè con il pilota, scoprii che i morti erano stati trentanove. Fui distrutto. Pensi che io non volli una lira per quella partita, diedi tutti i soldi alla fondazione che si occupava delle famiglie delle vittime. Mi sembrava il minimo».

I 5 SCUDETTI DELLA JUVE – «Un’impresa straordinaria. Tutti meritati. Squadra fortissima, grande allenatore e, soprattutto, società solida, capace di far rispettare le regole. Cosa che alla Roma, l’unica squadra che potrebbe competere, è sempre stato e temo sarà sempre molto difficile».

IL PAPA POLACCO – «Sì, deve sapere che nel 1982, prima dei Mondiali di Spagna noi per sei mesi non potemmo giocare neanche una partita, come nazionale polacca. La ragione era politica: dopo il golpe di Jaruzelski, eravamo considerati una dittatura e gli altri si rifiutavano di giocare con noi. La nazionale passò da Roma e fu ricevuta in Vaticano. Io, come uno sventato, dissi a Papa Giovanni Paolo II se poteva dire una preghiera per la nostra squadra. Lui mi rispose, un po’ sorpreso: “Dio con il calcio non c’entra niente”. Poi noi arrivammo terzi, in quel mondiale. Qualche mese dopo , io ormai alla Juve, fummo ricevuti con tutta la società in udienza privata. Eravamo tutti lì, con Agnelli, Romiti, Boniperti. Il Papa arrivò e disse subito: “Dov’è Boniek?”. Io ero preoccupato, visto il precedente. Mi prese da parte e mi disse, sottovoce, “se avessi saputo che arrivavamo terzi l’avrei fatta, quella preghiera”».